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Fusione termonucleare e il problema dell’energia

Articolo e immagini a cura di Carlo Mazzera, anche Guida Natour Biowatching.

L’energia necessaria all’umanità fino ad ora è stata fornita in larga parte dalle fonti fossili, ma ormai è chiaro che non sono più sostenibili, ed è necessario decarbonizzare per combattere l’accelerazione del cambiamento climatico. Tra le diverse fonti di energia alternative e tra le tecnologie allo studio troviamo anche la fusione nucleare, che potrebbe essere la fonte di energia ideale, e portare, in un futuro non prossimo, alla produzione massiva di energia con un processo privo di emissioni di carbonio, risolvendo alcuni dei massimi problemi dell’umanità. Il processo di fusione si basa appunto sulla “fusione” o unione di atomi leggeri (come gli isotopi dell’idrogeno), una fonte molto più efficiente di quelle fossili e che è in grado di liberare enormi quantità di energia.
E’ inoltre una fonte energetica continua, programmabile, ad alta intensità energetica, sicura e decisamente pulita se confrontata con le altre fonti.
 
Da molto tempo sono in corso esperimenti che la riguardano, e che seguono percorsi diversi, ma siamo ancora lontani da risultati utilizzabili. Importante sapere che attualmente non esiste nessun “reattore”, neppure allo stato di prototipo (cioè macchine più o meno complete che possano generare energia una volta perfezionate). Per ora esistono solo “esperimenti”, cioè macchine che servono a studiare la fisica coinvolta o a provare tecnologie, materiali o parti di futuri, ipotetici “reattori”, per ora solo immaginati: nonostante oltre sessant’anni di ricerca mancano ancora troppi dati.

Modellino ITER - Cadarache

Ultimamente si è parlato molto della fusione, spesso in maniera poco corretta, in un alternarsi di notizie troppo ottimistiche o troppo pessimistiche (spesso solo bufale o “clickbait”).

Data l’importanza dell’argomento ho pensato ( Carlo Mazzera ) possa essere utile ed interessante fornire un piccolo contributo per fare chiarezza. Data la complessità dell’argomento, ho dovuto limitare al massimo gli approfondimenti, garantendo comunque la correttezza delle informazioni.


Una precisazione preliminare: ogni tanto si sente parlare di “fusione fredda”. Non vale la pena prenderla in considerazione e perderci tempo, basti sapere che è una vecchia bufala, impossibile fisicamente, è come parlare di moto perpetuo, di memoria dell’acqua o di unicorni: ignoriamo l’argomento e passiamo a cose serie.

In dicembre é stato dato molto risalto alla notizia che negli Stati Uniti, presso il Lawrence Livermore National Laboratory, con una brevissima reazione di fusione nucleare, si è riusciti a produrre per la prima volta più energia di quella immessa (3,15 MJ ottenuti contro 2,05 immessi: sono quantità molto piccole, rispettivamente equivalenti al calore prodotto bruciando circa 50 e 32 grammi di benzina). Il metodo seguito è quello del “confinamento inerziale”, che impiega dei laser ad alta potenza per comprimere e far esplodere una sferetta di idrogeno congelato. Il risultato ottenuto è molto importante dal punto di vista scientifico, ma è stato comunicato in maniera che può essere fuorviante: l’energia immessa considerata è solo quella iniettata nella cella di reazione, che è solo una frazione di quella utilizzata per fare funzionare i laser, circa 300 MJ, per cui l’energia ottenuta non è una volta e mezzo di quella impiegata, ma solo un centesimo. Mancano inoltre completamente la tecnologia per far funzionare il sistema in maniera continua, per estrarre il calore prodotto e per produrre a costi accettabili le sferette di combustibile.

 

In Francia, a Cadarache, un consorzio di 35 nazioni (tutta l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Russia, la Corea del Sud, il Giappone, la Cina, l’India) sta portando avanti un gigantesco esperimento per poter arrivare alla fusione seguendo un altro sistema, il “confinamento magnetico”, che allo stato attuale sembra la tecnologia più matura e  promettente. Il nome dell’esperimento è “ITER”, acronimo di  “International Thermonuclear Experimental Reactor”. Si punta a produrre una quantità di energia dieci volte superiore a quella immessa.  Si parla di una potenza di 50 MW impiegati e di 500 MW ottenuti, compensando anche quella utilizzata dagli impianti ausiliari, e mantenendo stabile la reazione per una decina di minuti. L’ esperimento studierà la fisica del plasma, per arrivare ad una sufficiente stabilità della reazione, e metterà alla prova diverse versioni di parti della macchina, che dovranno resistere a condizioni e sollecitazioni mai raggiunte dalla tecnologia umana. Questo permetterà di costruire un “quasi” prototipo (chiamato “DEMO”) che servirà a testare i parametri definitivi di funzionamento, e che permetterà di arrivare alla macchina definitiva (per ora chiamata “PROTO”), da cui deriveranno i reattori commerciali.

Nel novembre dell’anno scorso ho potuto partecipare, insieme a qualche amico, all’Open Day di ITER e visitare gli impianti in costruzione, dove scienziati di tutte le nazioni collaborano, lavorando insieme in armonia. Il complesso è impressionante. Strutture immense servono per allestire le varie parti, che vengono poi assemblate nell’edificio principale, a comporre una macchina grande come una cattedrale, pesante sette volte la Tour Eiffel (solo la macchina, esclusi tutti gli impianti ausiliari). Difficile rendersi conto delle condizioni in cui dovrà operare, talmente estreme da essere quasi inimmaginabili: all’interno della camera a vuoto, il cuore dell’impianto, avremo una temperatura intorno ai 150 milioni di gradi, la più alta dell’universo, ed a pochi centimetri i magneti superconduttori dovranno essere mantenuti ad una temperatura prossima allo zero assoluto, la temperatura più bassa di tutto l’universo. La pressione di funzionamento sarà bassissima, circa 0,000005 atmosfere: solo un paio di grammi di idrogeno riempiranno la camera a vuoto, che avrà un volume di 800 metri cubi, il volume di una piscina olimpionica. Il calore che investirà le pareti interne sarà il quadruplo di quello sopportato dalle capsule spaziali al rientro nell’atmosfera. I problemi da risolvere sono immensi, forse è la più grande sfida mai affrontata dall’umanità.

Solo fra molti anni. Vi sono parecchi altri esperimenti in corso (sia portati avanti da soggetti con finanziamenti pubblici che da gruppi privati) che asseriscono di poter arrivare a risultati “commerciali” in pochi anni (o pochi decenni). Sono esperimenti più “snelli”, che non si propongono di studiare a fondo la fisica della reazione, ma che sperano di arrivare a risultati utili a tentativi. Personalmente ritengo che sia molto difficile arrivare in questo modo alla soluzione di problemi così complessi. Restando su ITER, l’esperimento più importante e promettente, si prevede il suo pieno funzionamento intorno al 2035. I risultati ottenuti permetteranno di costruire una serie di altri “reattori” chiamati DEMO, di cui uno “riassuntivo” dopo il 2050, che porteranno ad un primo prototipo, provvisoriamente definito PROTO, credo un paio di decenni più tardi. C’è da tener conto anche che fino ad oggi i tempi (ed i costi) previsti si sono allungati continuamente, modificando anche gli obiettivi previsti in corso d’opera. In definitiva, posso ipotizzare realisticamente una produzione industriale significativa di energia elettrica solo nel prossimo secolo.

Sì… quasi. Durante il funzionamento non emette anidride carbonica, né altri gas climalteranti (a parte, come in tutti i cantieri, le emissioni di anidride carbonica per l’energia impiegata durante le fasi di costruzione). Per quanto riguarda i rifiuti radioattivi, la fusione non crea scorie radioattive di “alto livello”, cioè quelle veramente pericolose e che richiedono tempi lunghissimi per decadere. Abbiamo però una parte del combustibile (il trizio) moderatamente radioattivo, con un tempo di dimezzamento di circa dodici anni. Avendo inoltre un flusso intenso di neutroni che colpiscono le pareti della camera a vuoto alcuni materiali diventano radioattivi, come ad esempio il vanadio, presente in piccole percentuali negli acciai impiegati per il reattore; sarà opportuno, o forse necessario, sviluppare nuovi materiali, in modo da minimizzare la presenza di elementi suscettibili di “attivazione neutronica”. Le parti sostituite per usura durante l’esercizio, o dismesse alla fine vita dell’impianto, dovranno in effetti essere trattate come rifiuti radioattivi di basso o medio livello, ma con problemi enormemente inferiori rispetto a quelli dei reattori classici a fissione (i tempi di dimezzamento degli isotopi in questione saranno al massimo intorno ai trecento anni).

Sì… quasi.  Per la reazione scelta occorrono i due isotopi meno comuni, il deuterio ed il  trizio. Il deuterio è relativamente diffuso (nell’acqua di mare una molecola di acqua su seimila l’idrogeno normale è sostituito dal deuterio), e relativamente facile da estrarre. Ma il trizio non esiste sulla terra, deve essere prodotto (per ora solo con reattori a fissione particolari, tipo i CANDU). Attualmente ne esistono solo 27 chilogrammi, equivalenti al consumo di qualche mese di un solo (futuro) reattore (serve per produrre le bombe termonucleari, è radioattivo e si degrada in maniera relativamente rapida). Si dovrà trovare il sistema per produrlo direttamente nel reattore ( in modo che si autoalimenti), bombardando con i neutroni in esubero il rivestimento interno del Tokamak, arricchito di litio (la cui richiesta è destinata ad aumentare vertiginosamente in futuro anche per le batterie, e che potrebbe innescare notevoli problemi geopolitici).

Sì, questa volta senza se e senza ma. La reazione è talmente instabile e “fragile”, che al minimo malfunzionamento, guasto od errore semplicemente si ferma, smettendo di produrre energia, come una lampadina se stacchiamo la spina. Non esiste un “nocciolo”, come negli attuali reattori a fissione, che possa fondere per mancanza di raffreddamento e continuare a produrre calore. Al limite si può danneggiare la macchina, nessun danno può trasmettersi all’ambiente attorno (al massimo sarebbe danneggiato il portafoglio degli investitori…).

La fusione termonucleare potrà essere in futuro (speriamo) la soluzione definitiva al problema energetico dell’umanità (quando anche la popolazione mondiale sarà più numerosa, ed il fabbisogno energetico pro capite maggiore), ma non potrà arrivare in tempo per salvarci dal surriscaldamento globale dovuto ai gas serra. Per contenerlo entro limiti non disastrosi abbiamo pochi anni di tempo (10? 30?): la fusione potrà forse essere operativa tra 50, 70 anni, e verosimilmente a contribuire in maniera significativa al mix di produzione energetica globale solo nel prossimo secolo. Non abbiamo tempo. Dobbiamo assolutamente continuare a spingere la ricerca per la fusione, ma ora, subito, dobbiamo aumentare la quota prodotta con le fonti rinnovabili (sole, vento, geotermia) e soprattutto risparmiare ottimizzando i consumi, destinati ad aumentare (la speranza di ridurli è utopica).

La transizione energetica verso le rinnovabili dovrebbe essere inoltre attuata in tempi brevi, con investimenti massicci nei prossimi cinque o dieci anni perché, in caso contrario, l’imponente quantità di energia necessaria alla produzione, trasporto ed installazione di pannelli solari, turbine eoliche ed altre infrastrutture dovrebbero essere soddisfatta dai sistemi tradizionali (fossili), con ingenti emissioni di gas serra. E questo anche senza tener conto del costo (energetico) per l’implementazione delle linee di trasmissione e degli impianti di accumulo, degli interventi di efficientamento energetico degli edifici e della sostituzione delle autovetture a motore termico.

– “Come funziona la fusione nucleare”. Video sulla fusione, spiegata in maniera (abbastanza) semplice ma corretta [ vedi ]

– “Come funziona un reattore a fusione”. Video un po’ più complesso del precedente, che dà una idea del garbuglio dei problemi da risolvere, e dell’attuale stato dell’arte. [ vedi ]

– A proposito dei tempi stretti per la transizione energetica verso l’utilizzo di solare, eolico, ecc., argomento non banale da comprendere, consiglio “Quante emissioni per avviare le rinnovabili” un breve articolo sul numero di gennaio 2023 de “Le Scienze”, pag. 18-19, a firma Davide Michielin)

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